18 marzo 2017

18 Marzo

Il 18 marzo 1871 iniziava la Comune di Parigi, oggetto di questo romanzo. Nell'anniversario di quella grande giornata pubblico qui sotto le pagine in cui Louise Michel racconta questo inizio. Le parole sono miei, ma i fatti ed i pensieri li potete torvare tutti nel suo 'La comune'

Vi sono a volte gesti la cui stupidità è tale che non mi riesce di trovar loro spiegazione, neppure nell'arroganza di chi li commette. Tale è stato nei giorni scorsi la chiusura dei giornali Le Vengeur, Le Mot d'Ordre, Le Bouche de Fer, Le Cri du Peuple e La Caricature; tale è stata anche l'affissione stanotte dei manifesti in cui Thiers ci accusa di essere i colpevoli del mancato «ritorno del lavoro e dell'agiatezza» a Parigi, e di essere dei traditori, seppur forse involontari, della nostra patria. Thiers chiede esplicitamente che «i buoni cittadini si separino dai cattivi», dimostrando così una mancata conoscenza del popolo che dovrebbe governare che io credevo possibile solo da chi viva in un'altra nazione, se non in un altro continente. Nella notte, tra quanti vegliavano i cannoni, l'unica divisione che quel manifesto riusciva a provocare era quella tra la rabbia di chi se ne sentiva offeso ed il riso di chi li trovava persino troppo stupidi per essere offensivi. Ora è mattino, e mentre mi reco a portare un messaggio al presidio del sessantunesimo battaglione ancora ripenso alle parole del manifesto, che fantastica di un «comitato occulto», che tutto dirigerebbe, e che ci accusa «di compromettere la repubblica» e di «aver rubato i cannoni». I cannoni della guardia civile erano e della guardia civile restano, ma per noi la guardia civile sono i suoi soldati, e non De Palladines, o chi verrà messo domani in sua vece. Thiers si vanta anche che «il governo istituito dall'intera nazione avrebbe già potuto riprendere i suoi cannoni» e che se non lo ha ancora fatto è solo perché «esso ha voluto dare il tempo agli ingannati di separarsi dagli ingannatori». Il piccolo Thiers pare dimenticare che già quattro volte ha tentato di riprendere i cannoni, e per quattro volte ha fallito, ma se non riesce a mandare a mente la lezione non si preoccupi e venga pure, noi gliela ripeteremo. Arrivata al presidio, in Rue Rosier, trovo uno strano individuo che cerca di convincere le guardie delle più strane storie. Messe sul chi va là da altri due tentativi di intrufolarsi nelle nostre linee che erano stati scoperti nella notte, tutte le guardie si concentrano sull'uomo, e per questo veniamo sorpresi dall'attacco dei soldati. La postazione è persa, e prima che si possa avvertire qualcuno Turpin è ferito; io ed un'altra donna lo medichiamo con ciò che troviamo. Giunge Clemenceau, il sindaco dell'arrondissement, e da lui riesco ad ottenere di andare a prendere bende più adatte, sotto la promessa di tornare in tempi brevi. Corro giù dalla collina, tenendo nascosto il mio moschetto sotto il mantello, e appena vicina ad un drappello di guardie inizio ad urlare al tradimento. Tutti si muovono rapidamente, le campane vengono fatte suonare a distesa, il drappello della guardia risale la collina, ed io con loro, pronta ad onorare la mia promessa di far ritorno al più presto. Giungiamo in prossimità della cima, e davanti a noi si para un'armata schierata a battaglia, coi fucili già puntati. Trovarli lì non ci sorprende, e quando ci siamo mossi l'abbiamo fatto pronti a morire per la libertà, ma non è mai facile adempiere ad una simile promessa, ed è normale qualche attimo di esitazione prima di un tale sacrificio, non è indice del fatto che non si sia disposti a compierlo. Prima che esso si renda necessario, però, qualcosa d'incredibile succede. Da ogni via giungono donne, a decine, e benché disarmate si schierano in prima fila, ed una volta schierate non si arrestano, ma vanno a porsi di fronte alle bocche dei cannoni e delle mitragliatrici che i soldati avevano già disposto. Rimango immobile, sopraffatta da quello spettacolo, solo nel momento in cui riconosco tra loro mia madre l'angoscia mi risveglia dal mio stupore, ma nulla posso fare ora per lei, o per le altre. Sono loro che fanno per noi. Ora sono tutte schierate, senz'armi, di fronte ai ferri dei soldati, e Lecomte, l'ignobile che comanda quegli uomini, ordina loro di sparare, ma anche lui come Thiers viene tradito dalla propria stupida arroganza: non uno dei suoi sottoposti esegue l'ordine. Molti tentennano, si guardano introno, finché un sottufficiale non esce dalle righe e, schieratosi di fronte ai commilitoni, comanda loro «Calcio in aria», chiamando i suoi commilitoni a posizionare le armi con la bocca verso terra, in modo da non poter sparare. Il suo grado è di molto inferiore a quello di Lecomte, ma il suo ordine è moralmente tanto superiore che è al caporale Verdaguer, e non al generale Lecomte, che la truppa ubbidisce. Ed è la stessa truppa che arresta il generale, e lo tiene sotto sorveglianza in una casa di rue Rosier. Vuoi per abitudine, vuoi per vecchi rancori, i soldati non riservano a chi li comandava più rispetto di quanto ne usino abitualmente ai prigionieri, e Lecomte in breve ha modo di rimpiangere la propria arroganza. Passano pochi minuti, e dalla direzione di Montmartre arrivano altre persone. Scortano un vecchio, in vestiti civili, pesto e sanguinante quanto ormai è Lecomte, tanto che solo quando mi arriva molto vicino lo riconosco. Si tratta di un civile, è vero, ma lo è da poco più di un mese, prima era il comandante della guardia nazionale, ruolo che si era guadagnato massacrando quanti, nel '48, avevano osato alzare il capo e la voce contro Luigi Filippo. E' Clement Thomas, un uomo non migliore di Lecomte, e giustamente come Lecomte viene trattato. Gli uomini che lo spintonano raccontano di averlo sorpreso vicino alle barricate, intento a spiarle, certo sperando di trovarvi un punto debole su cui indirizzare gli attacchi dei suoi amici, egli però non aveva tenuto conto della fama che il suo agire precedente gli aveva procurato. Thomas viene gettato insieme a Lecomte e trattato nello stesso modo, mentre intorno si discute il loro destino. Qualcuno dei cittadini chiede clemenza, molti vendetta, ma non si ha il tempo di giungere ad un accordo tra noi perché sono i soldati a decidere; sono i soldati che stanno loro intorno ad aprire il fuoco, con un rumore che non è ordinato come quello di un plotone di esecuzione, ma piuttosto composto di colpi sparsi, segno che ognuno di coloro che sparano pensa e agisce per conto proprio. Sono le quattro del pomeriggio quando Lecomte e Thomas smettono di respirare. Qualcuno dei presenti ancora protesta, dicendo che li si doveva imprigionare e processare, per parte mia, mentre riaccompagno mia madre alla sua abitazione, sono soddisfatta di sapere che i loro crimini hanno avuto la giusta punizione, poco mi importa che questa sia stata comminata da un tribunale ufficiale. E poi ufficiale di chi, dell'Impero, della Repubblica, o della Comune? La Comune non ha tribunali, e quelli della repubblica e dell'impero, che sono tra loro fratelli, non condannerebbero mai chi ha commesso crimini in loro nome, per difendere il loro potere. Oggi non è un giorno in cui il popolo chiede, oggi è giorno in cui il popolo prende ciò che è suo, e lo difende. Oggi, a differenza del ventidue gennaio, per i nostri diritti non siamo solo pronti a morire, ma pure ad uccidere, se necessario. Se si vuol vincere, non può essere altrimenti.